martedì 21 agosto 2012

Sycamore Age, lucide menti aperte



Se il disco dei Sycamore Age fosse uscito in un Paese anglofono avrebbe già fatto incetta di premi, mentre l’appellativo di Next Big Thing avrebbe trovato finalmente casa. Ma siamo in Italia e a meno che non ti chiami Pulcino Pio, oggi, per l'artista emergente di turno, è sempre più difficile riuscire a ritagliarsi il proprio angolo di notorietà. Esterofilo di lungo corso, ascolto davvero tantissime nuove uscite che provengono, soprattutto, dall’America e Inghilterra e dopo 4 anni di blog e migliaia di ascolti, per quel conta la mia opinione, posso affermare serenamente di averne sentite davvero poche, di novità così intense come quella proposta dai Sycamore Age. E la natura così diversa di tutte le considerazioni fatte e dei riferimenti artistici a loro attribuiti dagli addetti ai lavori e non, non hanno fatto altro che rafforzare l’idea in me, che si tratta di un disco assolutamente personale.
Dopo il concerto del 7 agosto nel quale riponevo le maggiori attese (e molto ben ripagate, devo dire; la bellezza della loro musica si arricchisce ancora di più), i 7 ragazzi di Arezzo (e in particolare Stefano Santoni, timoniere della band) mi hanno concesso l'opportunità di curiosare ulteriormente nel loro mondo musicale.

  Allora caro Stefano, partiamo subito col rivelare il segreto dei Sycamore Age: gruppo assemblato in 2 anni, suppongo con derivazioni e provenienze artistiche così diverse, ma in grado ugualmente di tirare fuori un disco di tale, grande spessore e che sul palco sembra/è una perfetta squadra di ginnastica artistica, incredibilmente sincronizzata e precisa, in grado di scambiarsi ruoli e strumenti senza dare questa sensazione a chi vi guarda, se non riflettendoci a posteriori: avete venduto l’anima al diavolo già dal primo album?, tutti i pianeti erano allineati? o pura e semplice (perfetta) alchimia?
 Caro Gianni, che dire…tutti questi complimenti quasi ci imbarazzano. Per rispondere alla tua domanda, direi tutte e tre le cose assieme. In ordine, credo che la prima cosa da fare in assoluto sia “vendere l’anima al diavolo”, se per ciò si intende intraprendere quel viaggio iniziatico fino in fondo alle viscere della nostra esistenza, in pieno spirito dantesco, per poi esser capaci di ritornare indietro e poter almeno sperare di raccontare qualcosa di interessante a chi ti sta ad ascoltare. Poi, senz’altro c’è stato anche un forte contributo dato dal caso, com’è sempre del resto, il quale ci ha letteralmente “allineato” in quel piccolo spazio che è Arezzo e nel brevissimo lasso di tempo dei pochi mesi serviti per conoscerci ed unirci in questo strampalato progetto. Infine, si, sarà un po’ patetico ammetterlo ma c’è un’ottima alchimia tra noi. Nonostante le notevoli differenze di età che ci sono all’interno del gruppo (che definirei più una “family band”) ci divertiamo sempre e allo stesso modo, sia quando scriviamo i pezzi, sia quando facciamo viaggi interminabili in furgone e sia quando siamo sul palco a fare le scimmie da circo…non so davvero spiegarmi come facciano quei gruppi che hanno forti asti al loro interno e, soprattutto…chi glielo fa fare. Come ho detto sopra, noi tutti siamo scimmie, bestie capricciose e difficili da trattare, dobbiamo saper lavorare ogni giorno su noi stessi per mantenere e rinnovare quella saggia armonia che è, per altro, indispensabile fonte di energia artistica.

   Un accenno alla copertina del disco … sembra un rosone di quelli che si vedono disegnati sulle vetrate delle chiese, poi aprendo il libretto la vetrata esplode liberando (quelle che sembrano) una moltitudine di farfalle; la foto che vi ritrae sollevati da terra, poi, sembra rafforzare nel suo complesso l’espressione della vostra musica. Invece cosa rappresentano?
  Come abbiamo già detto in altre interviste, la grafica parte da un’idea di Damien Hirst che è forse il più grande artista visivo contemporaneo. Trovavamo il suo lavoro perfetto per il “mood” dell’album. Le farfalle mandano messaggi controversi di bellezza irresistibile e inquietudine, di sesso e di morte. L’idea di un caleidoscopio, fatto di tutto ciò, doveva essere per forza quella definitiva e, non potendo chiedere concessioni al grande Damien, l’abbiamo riprodotta in soggetti e composizioni originali. Per quanto riguarda la foto, anche qua, grazie al supporto di Gabriele Spadini (il nostro fotografo), abbiamo cercato di realizzare un impianto scenico che narrasse il più possibile il carattere surreale e vagamente esoterico che ci contraddistingue, proponendolo al tempo stesso in un ambiente iconografico contemporaneo…ci siamo riusciti???

  Tornando al disco, considerato che anche la produzione è stata “cosa vostra” ti chiedo se avete fatto tesoro di suggerimenti esterni o avete solo ricevuto applausi da chi vi osservava mentre registravate l’album?
 Ti rispondo io, che sono appunto il produttore. Non c’era assolutamente nessuno a darci consigli ne, tanto meno, ad applaudirci mentre registravamo, anche perché, nel nostro studio di 12 metri quadrati, non c’è molto spazio, ne per suggeritori, ne per gente che applaude. In realtà, ad album finito, eravamo semmai piuttosto scettici sull’impatto che potrebbe aver avuto sulla critica. Temevamo che la discontinuità, data dall’estrema libertà e spontaneità a cui ci siamo lasciati andare nella realizzazione del disco, venisse letta come una mancanza di orientamento. Per fortuna non è andata così e siamo stati noi i primi a meravigliarci per la calda accoglienza che invece c’è stata da parte degli addetti ai lavori e, devo dire, soprattutto da parte del pubblico in generale.

   Un’altra magia che è venuta fuori dall’album: ho letto un po’ tutte le recensioni sul web e sulle riviste specializzate: in ognuna c’è un accostamento, un riferimento condiviso e in ognuna qualcosa di diverso ma sempre innegabile, dal concept album, al progressive, al disco rock/opera, dalla fiaba in musica alle analogie con la voce dei Buckley (anche se io continuo a trovare molto più vicino la voce di Francesco Chimenti a quella di Jeff) … personalmente ho trovato apprezzabili anche le brevi incursioni nell’elettronica appena accennate e la coralità dei Fleet Foxes (Astonished Birds rimane ancora la mia preferita) e una chiusura superba di Tears and Fire che sembra uscita dalle corde di Peter Buck dei Rem. Ma nella sua totalità, come ti dicevo prima del concerto, mi sembra un disco assolutamente romantico. Ho saltato qualcosa? Ma soprattutto, questo giochino dell’”assomiglia a questo e a quello”, alla fine, vi ha rotto le palle? vi diverte ancora? C’è il nome di qualche artista che vi sarebbe piaciuto sentire venir fuori dalle recensioni, fondamentalmente non ve ne può fregà de meno?
    L’ultima che hai detto...decisamente! La musica, a differenza per esempio della letteratura, ha questo magico potere di saltare la corteccia cerebrale e creare un filo di comunicazione diretto con il profondo dei nostri istinti. Il critico, in generale, cerca di riportare tutto a galla e far risultare tutto come una zattera naufragata e ridotta in inutili frantumi che giacciono sotto una luce sparata, liofilizzati, epurati di ogni poesia. Questo fa parte del gioco e noi stiamo al gioco…ma con il giusto spirito e, soprattutto, con consapevolezza. E’ ovvio che per passione abbiamo ascoltato e continuiamo ad ascoltare centinaia e centinaia di dischi, dei quali spesso dimentichiamo il titolo e persino il nome dell’autore. Non dimentichiamo però i colori e le sfumature di ognuno che, inevitabilmente, si ritrovano poi ad interagire con i fondamentali della nostra tavolozza. Un sound Romantico? Assolutamente si! Nell’accezione più profonda del termine: amiamo l’’800, la passione pura, i poeti simbolisti, i Preraffaelliti, i Dandy, lo amiamo dal naturalismo fino ai cinici deliri di Wilde.

   A proposito della scelta dell’inglese, te lo richiedo: credi che il disco avrebbe avuto lo stesso impatto e ottenuto lo stesso risultato se cantato in italiano? E la decisione di cantare in inglese è stata condivisa da tutti, o si è sollevata qualche voce contraria?
   Bah, forse, data la pigrizia linguistica che contraddistingue il nostro paese, se il disco fosse stato cantato in italiano tutto sarebbe risultato più semplice. Considerando però che noi non cantiamo in inglese solo per il suono della lingua ma, soprattutto, per parlare al mondo, direi che neanche ci poniamo il problema. Di contro, da gennaio 2013, il nostro primo album sarà distribuito in tutta Europa da Rough Trade, ciò non sarebbe potuto avvenire se fosse un prodotto rivolto solo all’Italia. Noi amiamo profondamente il nostro paese e, ancor di più, le sue radici culturali. Da Monteverdi a Morricone, da Gesualdo da Venosa a Luciano Berio; per non parlare poi dell’arte visiva…la metafisica che aleggia nella nostra musica è figlia legittima di Piero della Francesca, di cui ogni giorno respiriamo nuovamente le opere presenti nella città in cui viviamo. In definitiva, crediamo che sia ora di smettere di cantarcele e di suonarcele da soli, è invece l’ora di confrontarsi, con coraggio, competenza e consapevolezza, con una ineludibile realtà internazionale…noi ce la mettiamo tutta e non senza difficoltà.

  Dopo le lodi che stanno accompagnando questo incredibile esordio, vi spaventa il domani?
 Il domani spaventa perché ha in se il seme del mistero, della fine di tutto, non certo per la paura di non riuscire a mettere assieme quattro note e quattro suoni. Chiamalo nichilismo, chiamala saggezza zen ma, se riusciremo a continuare a scrollarci di dosso il peso e i capricci del nostro io, faremo sicuramente un altro lavoro sincero, spontaneo e generoso…questo è tutto ciò che ci interessa, il resto è chewing gum da far ruminare ai critici.



1 commento:

Margherita Devalle e Marta Stone ha detto...

Moloto particolari ed interessanti, mi docuimenterò!
una cosa, non mi sembra che l'italia sia poco anglofona anzi l'esterofilia è fin troppo accentuata!