mercoledì 5 gennaio 2011

CASTELLI LUCA ??: interrogato !!!
(ricordi e riflessioni)

 Partiamo parlando di musica e dei nostri inizi: personalmente, sono stato iniziato alle elementari da mio fratello maggiore con i King Crimson, Talking Heads e Bowie. Poi ho ascoltato Nikka Costa, i Duran Duran di Wild Boys (che mi sembravano heavy metal). Lo spartiacque per me fu la sony c90 con War sul lato A e The Unforgettable Fire sul lato B. Poi la svolta definitiva negli anni ’90 fino a continuare a tutt’oggi: la tua linea musicale, invece, come si è sviluppata?
 Gli inizi sono discretamente imbarazzanti. Anche nel mio caso, le influenze iniziali sono arrivate da un parente - mia sorella - che qui accuso ufficialmente di una doppia macchia indelebile. A causa dei suoi consigli, le prime due musicassette acquistate in vita mia sono state Fearless degli Eight Wonder (all’adorabile Patsy Kensit era appena caduta la spallina a Sanremo) e Whenever You Need Somebody di Rick Astley (sì, proprio quello di Never Gonna Give You Up…). Terribile, eh? Avevo undici o dodici anni, frequentavo le medie. Poi, ta-dah, Vasco! Era l’epoca di Liberi Liberi – che mi piaceva un sacco e onestamente ancora oggi mi piace – e il passaggio del Fronte dal palco Tour al Delle Alpi di Torino è stato anche il mio primo concerto da stadio (e questa volta mia sorella non c’entra, è tutta farina del mio sacco). Quindi una spruzzata di Queen, con il Greatest Hits II metabolizzato per osmosi dopo la morte di Freddy Mercury. Insomma, niente educazione musicale di alto livello, con Sgt.Pepper’s o David Bowie. Poi è arrivata la svolta. Achtung Baby degli U2. Una sberla. Una sveglia. La folgorazione sulla via di Berlino/Dublino. L’inizio di una decennale idolatria per Bono e soci. All’alba dei miei sedici anni, tutto è cambiato. Nel tardo liceo sono passato attraverso Ligabue, i Litfiba, i Nirvana, tutto il grunge, il britpop, fino a sviluppare una gigantesca perversione personale per gli Heroes del Silencio. All’università, un po’ tardi rispetto alla media, ho scoperto le riviste specializzate. E’ esplosa la scena rock italiana. Si sono accesi i Radiohead, si è accesa Internet. Mi sono messo a studiare e recuperare un po’ di glorioso passato, in modo da non avere proprio il totale disprezzo dai miei colleghi del Mucchio. Farlo con i nuovi strumenti a disposizione è una goduria. Ci sono miliardi di mondi, musiche e storie da scoprire. Comunque, c’è poco da fare: anche se adoro tutto ciò che hanno fatto i Beatles, il mio decennio di riferimento – quello che riesce a procurarmi i brividi più profondi, escluso quello attuale - rimangono gli anni ’90. Achtung Baby su tutti. E’ inarrivabile. Se non avrò un cavallo a disposizione, quando muoio voglio essere seppellito con quel disco.

 In termini di supporti fonografici, quella stessa linea musicale del tempo, per me si è tradotta in cassette, vinili, cd ed mp3. Io credo che le generazioni di attuali 40-50enni abbiano vissuto una vera e propria rivoluzione del modo di fruire la musica (discorso che ovviamente si potrebbe ampliare a migliaia di altre cose), che gli attuali “adolescenti” forse non vivranno, dimmi la tua.
 Ogni generazione vive la sua rivoluzione. Noi per esempio non abbiamo vissuto gli anni ’60, che devono essere stati una gran bella botta. Certo, gli “adolescenti” di oggi non potranno mai provare quell’incredibile transizione da analogico a digitale, da vinile a MP3 (attraverso il cd), da limitazione ad abbondanza, da isolamento a conversazione globale, attraverso cui siamo passati noi. Ma non credo che ne sentiranno la mancanza. Perché dovrebbero? E’ qualcosa fuori dalla loro epoca, dalle loro abitudini, dal loro tempo. Noi siamo nati con l’energia elettrica e non ci siamo mai preoccupati più di tanto dell’incredibile passaggio dalle candele alle lampadine. Magari tra vent’anni saranno i teenager di oggi a guardare gli adolescenti del 2030 e a pensare: “voi pischelli non saprete mai cosa si provava ad ascoltare un iPod”. E l’iPod, per gli adolescenti del 2030, sarà quello che per molti ragazzi di oggi è il vinile: un oggetto da museo. Detto ciò, io sono contento di aver vissuto il passaggio. L’ho trovato entusiasmante. Un’esplosione di suoni e colori. Improvvisa. Impetuosa. Condivisa e rigenerante. Ho goduto nell’era dei cd, ho goduto lo tsunami di Napster, godo oggi nel caos della musica liquida. E ogni tanto ho iniziato persino a comprare qualche vinile.

 Tra gli amici bloggers spesso si accende la diatriba sul vinile: “meglio di lui nessuno, al massimo ti concedo il cd” … “ma che dici, ormai sei superato: la musica è musica anche se l’ascolti alle casse del computer (ahimè!)”. Pensi che il dilemma non potrà sciogliersi fino a quando, come scrivi tu nel n. di ottobre del Mucchio, ci saranno “quelli che negli mp3 vedranno lo strumento del demonio”?
 Credo che ci siano degli appassionati di lirica che ancora oggi vedono il rock come la musica del demonio. Opinione legittima, ma che non ha certo fermato il mondo… Si torna un po’ alla risposta precedente. Ognuno elogia in modo sperticato l’epoca che ha vissuto, quella in cui ha provato le emozioni più forti, nascondendo o dimenticandone magari i lati negativi. Con Mussolini in fondo si stava meglio perché con lui i treni arrivavano in orario, no? E’ vero, la qualità audio tra vinile, cd e MP3 è diversissima. E le casse del pc restituiscono suoni molto meno raffinati che quelle di un impianto hi-fi. Ma ti confesso che oggi queste polemiche mi annoiano a morte. Un po’ come tutto ciò che è costruito come un paragone con il passato, con la nostalgia, con gli anni migliori della nostra vita, ecc. ecc. ecc. Sono fedele al dio (Peter) Pan. Mi sento ancora troppo giovane per essere vecchio. Ho voglia di guardare avanti. Di vedere dove stiamo andando. Di seguire la traccia della passione e della creatività più che lasciarmi narcotizzare dai borbottii della nostalgia e del rimpianto e del “le cose migliori sono già state fatte”. Non è facile, perché tutto cambia in modo maledettamente veloce, il richiamo dei ’90 si fa sempre più forte, il cuore sembra non riuscir più a vibrare in un certo modo, alcuni nuovi linguaggi non riesco più ad afferrarli o comprenderli con facilità. E mica solo i linguaggi musicali. Qualche giorno fa ero in tram, ovviamente con l’iPod, e ogni tanto sentivo intrufolarsi nella musica qualche parola proveniente da due ragazzine dietro di me. Non capivo cosa dicevano e ho pensato: boh, saranno rumene, o russe, comunque straniere. Poi, quando la canzone è finita, ho capito che erano italiane. E parlavano italiano. Eppure c’era qualcosa che non riuscivo afferrare. Era un italiano diverso. Sullo stesso tram, ma qualche giorno prima, sono saliti dei ragazzi in tenuta rap da combattimento (io la chiamo “rap”, di sicuro avrà qualche definizione gergale più precisa). Avranno avuto dodici o tredici anni e hanno iniziato ad ascoltare a tutto volume della musica su un telefonino. Ti giuro che non ho capito cosa fosse. Un incrocio tra hip hop tamarro, elettronica, reggae e qualcos’altro. Qualcosa che secondo me non passa nemmeno Radio Deejay. Qualcosa di diverso. Meglio Nick Drake? Senza dubbio. Però mi affascina di più ciò che potrebbe arrivare da questo mondo in ebollizione che non conosco, di quello che è stato scolpito nella pietra dai Giganti del Canone Rock. Oddio, preferirei non fosse proprio hip hop tamarro. Però, cos’avrebbero pensato quei ragazzi se avessi decantato loro la superiorità del vinile sull’MP3? Mi avrebbero guardato come uno che parla russo o rumeno? Il bello di questa società ai tempi del network è che non devi più relazionarti solo con chi – anagraficamente e culturalmente – ha le tue preferenze. Puoi passare con disinvoltura da una nicchia all’altra, confonderti, confrontarti. Sapendo che alla fine, quando vuoi un po’ di relax, potrai sempre tornare ai tuoi U2.

 Nello stesso numero scrivi anche che “Zuckerberg oggi ipnotizza le masse con Facebook come il coetaneo Springsteen le ipnotizzava con Born to Run”. Sai che una cosa del genere, decontestualizzata o se letta distrattamente dai fans estremisti del Boss, potrebbe decimare le vendite del mensile? O peggio portarti all’esecuzione capitale?
 Deve essere per quello che hanno messo la mia rubrica nelle pagine finali del giornale, dove fa meno danni! Ovviamente ci vuole un bel po’ di contestualizzazione. L’ipnosi di massa nel 2010 è diversa da quella del 1975. E gli Zuckerberg, i Parker, i Brin/Page sono “rockstar” che rispondono a dinamiche e creano messaggi distanti anni luce da quelli di Born To Run. Ma gli elementi in comune sono numerosi. L’età, innanzitutto. La straordinaria energia del ventenne che vuole costruire il suo presente. Non solo adattarsi a quello dei propri genitori. Poi, il desiderio di cambiare il mondo. Di travolgerlo. Di conquistarlo. Noi possiamo anche prenderli in giro, dire che sono dei nerd sfigati, ma quanti milioni di persone – anche quarantenni, cinquantenni, sessantenni – sono oggi più o meno dipendenti dai programmini scritti da studenti brufolosi nei dormitori di Harvard? Shawn Fanning e Sean Parker, con Napster, hanno abbattuto un’intera concezione industriale di controllo del contenuto. Zuckerberg con Facebook sta ridefinendo la socialità contemporanea (pensaci bene: non è un’esagerazione). I ragazzini di Google sono diventati talmente ricchi, potenti e influenti da venire attaccati dal governo cinese. Per questo, oggi sono loro le rockstar. E’ nei loro computer che brucia la fiamma dell’entusiasmo e della passione. Non certo nei dischi di chi imita per la milionesima volta i Beatles, i Led Zeppelin o i Joy Division. Se il rock era rivoluzione, oggi a esserlo è questa tecnologia. Nuove realtà che modificano pesantemente le nostre abitudini di vita, le regole della società. Come dimostra, tra l’altro, anche la faccenda di Wikileaks. Negli anni ’60 i Beatles hanno cambiato il mondo. Oggi Mark Zuckerberg sta cambiando il mondo.
Comunque, tornando al Boss, i suoi fan li avevo già fatti arrabbiare con un articolo di qualche anno fa sul sito della Stampa, a proposito di un presunto playback durante l’intervallo del Superbowl. L’avevo intitolato Bruce Springsteen & the Fake Street Band e in molti non l’avevano presa troppo bene. In effetti magari il titolo era un po’ esagerato, ma nell’era di Facebook e di Spinoza.it un gioco di parole non lo si nega a nessuno, no? Però sono sopravvissuto. E tra l’altro, massimo rispetto per il Boss. L’ho visto l’anno scorso a Torino ed è stato esaltante. Bisogna fare la rivoluzione, diamine! Non bisogna lasciarsi dominare dal passato! Ma spizzicarne un boccone qua e là, di quello più prelibato, non fa certo male.

 Sempre a proposito dei tuoi due ultimi articoli apparsi sul Mucchio: quello sul n.676 ha il sapore del capitolo finale; un’appendice al tuo libro, (LA MUSICA LIBERATA, ed. Arcana) quasi a dire: ‘per qualcosa di nuovo ripassate tra vent’anni’. Al contrario, Mediapolis del 677, sembra essere (un possibile?) primo capitolo di un tuo nuovo libro che potrebbe trattare tranquillamente della ‘nostra’ evoluzione sociale ed economica ai tempi di Internet.
 La mia sensazione è che – per quanto riguarda musica e Internet – buona parte della rivoluzione si sia completata. Rimane il grande salto verso lo streaming. Il trionfo dell’accesso sul possesso. Che è un’altra bella sberla dal punto di vista delle nostre abitudini e delle dinamiche industriali, ma credo sia un passaggio ormai ineluttabile. Un passaggio che – zitto zitto, naturale naturale – nei video è già avvenuto. Mica li scarichiamo, i video. Mica li possediamo. Li guardiamo in streaming, quando vogliamo, senza neanche accorgercene o porci il problema. E dietro si sta sviluppando un’industria dai numeri sempre più importanti. Con la musica c’è da distaccarsi psicologicamente da un passato diverso (quello che le nuove generazioni non conoscono: per loro tutto è più naturale) e da affinare qualche sinergia, soprattutto con i dispositivi mobili, ma la strada è tracciata. Le nuove generazioni, appunto, lo sanno. Da questo punto di vista, persino iTunes e l’iPod sono il passato. Lo stesso Steve Jobs, che è una specie di Leonardo del nostro tempo (l’inventore, non l’ex-allenatore del Milan), lo ha capito ed è andato oltre. L’avvento dei Beatles su iTunes è stata quasi una non-notizia. Una non-rivoluzione. Qualcosa di interessante – perché tutto ciò che riguarda i Beatles è interessante a prescindere, esattamente come lo è tutto ciò che riguarda Mozart o la Divina Commedia – ma la rivoluzione è da un’altra parte. La rivoluzione oggi si muove sulla superficie di un aggeggio come l’iPad. Quello è il prossimo passaggio. O almeno uno dei prossimi passaggi. Non più portare tutta la musica della nostra vita in un pacchetto di sigarette. Ma portare tutta la nostra vita digitale, tutte le nostre esperienze, sia quelle sociali che consumistiche, in una tavoletta. Non mi stupirei se tra cinque o al massimo dieci anni la popolazione mondiale di pc (laptop compresi) fosse decimata, sostituita dai tablet. Magari non protetti e recintati come l’iPad, magari di altre marche, ma comunque seguendo la sua filosofia e parte della sua estetica. A noi starà la responsabilità di usare questi strumenti per liberarci e migliorarci, e non per farci incatenare. Quella che mi interessa, comunque, non è solo l’evoluzione sociale ed economica. E’ anche l’evoluzione della creatività. La possibilità di immaginare nuovi sogni, nuovi linguaggi, nuove forme artistiche ibride, nate dall’intreccio, dal network, dalla contaminazione tra intelligenze e discipline diverse. I capolavori del futuro. Il fiorire di nuovi talenti che non si limitino a copiare modelli del passato ma che ne scrivano di inediti, di personali. Nella musica, nella scrittura, nell’arte, nella comunicazione. La musica è stato un grimaldello fantastico e seducente per aprire il vaso di Pandora del divenire. C’è chi dice che ne siano usciti fuori tutti i mali del mondo. Secondo me questi mali sono il seme da cui potrebbero germogliare nuove meraviglie. Anzi, siamo ottimisti: da cui germoglieranno di sicuro nuove meraviglie.

 Leggendoti in (tutti) questi anni sul Mucchio e nelle cose che lasci nel secchio e che tiro su dal tuo Pozzo, mi è sembrato di capire che tra i tuoi gruppi preferiti (così come tra i miei) ci sono U2, Pearl Jam e Coldplay. Per ciascuno di loro dammi il titolo di UNA canzone che ti stende ad ogni ascolto; non la più bella o la più tele votata, ma quella che ti fa ricordare perché ami ancora queste band dopo tanti anni e se dal vivo te lo hanno sempre confermato.
 Rieccoci all’adorabile passatismo! U2: Acrobat, 1991. Non l’hanno mai suonata dal vivo. Mai. Su YouTube si trovano solo delle versioni rubacchiate durante le prove dello Zoo Tv Tour del 1992 (esempio: http://www.youtube.com/watch?v=faXJzKxqc8Y). Oppure puoi immaginare come potrebbe essere live ascoltando la versione suonata dai Lemon, una cover band cilena specializzata nelle canzoni degli U2 che gli U2 non suonano mai dal vivo: http://www.youtube.com/watch?v=ldw319bfgao (grandi, eh? li ho già contattati e prima o poi li intervisterò, almeno sul blog). Acrobat è una delle ragioni per cui gli U2, oltre ad amarli, li odio profondamente. Hanno un catalogo fantastico e nei concerti ne suonano solo il 10% scarso, quello più trito, televotato e – nel caso degli ultimi dieci anni – più brutto e commercialotto (Elevation, Beautiful Day, Vertigo, City of Blinding Lights… l’orrore! L’orrore!). Da questo punto di vista, Springsteen è cento volte meglio (sì sì, in realtà è tutta piaggeria per riconquistare i fan offesi dal riferimento alla Fake Street Band). Così come, dal vivo, sono nettamente meglio i… Pearl Jam. Per loro te ne dico DUE, di canzoni. Le ultime folgoranti scosse. Light Years, versione Berlino 2009, un po’ più rapida di quella in studio. Ero lì. Concerto-ciliegina sulla torta di una esaltante vacanza tedesca. Il paradiso a 33 anni. Già solo scrivendo queste righe mi è venuta voglia di rivederla. Anzi, ti dirò di più, me la rivedo proprio: http://www.youtube.com/watch?v=1GuFftPUZNU&feature=related. La seconda è Speed of Sound, dall’ultimo album Backspacer. E’ una delle loro rarissime Acrobat, quelle canzoni tabù a cui il palcoscenico è vietato. L’hanno suonata solo una volta a Philadelphia, Eddie ha ciccato la parte iniziale di chitarra e non l’hanno più fatta (inutile dire che anche qui c’è la prova YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=C5QRxZDxpQY). Infine, i Coldplay: Don’t Panic, dall’album d’esordio Parachutes. Tutta la vita. Bastano gli accordi di chitarra acustica e il primo verso per riportarmi indietro all’estate del 2000. E’ un meccanismo quasi proustiano. E adoro, ogni tanto, tornare all’estate del 2000. Dal vivo li ho visti solo nel tour di A Rush of Blood in the Head (la title-track di quel disco, misconosciuta, è strepitosa) ma li ho trovati un po’ freddi.

 Hai il biglietto pronto per la finale di Champions, Torino – Real Madrid. La mattina ti chiama il direttore (Mucchio o Stampa che sia) e ti dice che in giornata arrivano Steve Jobs e Bill Gates, pronti per essere intervistati in esclusiva, alle 21. Come te la cavi?
 Torino – Real Madrid… oggi sembra qualcosa di impossibile, ma io un Toro-Real l’ho visto per davvero. Al Delle Alpi, primavera 1992, semifinale di Coppa Uefa. Due a zero per noi con autogol madrileno all’inizio e gol di Luca Fusi su galoppata di Gigi Lentini nel finale. Quattro ore di coda per comprare il biglietto, stadio tutto esaurito, settantamila persone, Piero Chiambretti a fare il cretino nel riscaldamento pre-partita in mezzo ai giocatori del Real. Che Toro, quello. Marchegiani, Bruno, Policano, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vasquez, Bresciani. Mondonico in panchina. Ed era pure il periodo in cui scoprivo gli U2 e Acrobat, diamine. Il problema non si pone: porto Steve Jobs e Bill Gates a vedere la partita. Anche i loro pr sono d’accordo, è tutta pubblicità. Esultiamo assieme. Poi andiamo a salutare l’allenatore vincente, José Mourinho, tornato in Italia per riportare in alto il Toro e dare qualche ulteriore dispiacere ai gobbi. Infine, visto che la partita si è giocata a Wembley, l’intervista andiamo a farla agli Abbey Road Studios (così ci ficchiamo anche un po’ di Beatles e vinili, assieme alla fredda tecnologia) e il pezzo lo scrivo alle sei del mattino e lo spedisco da un web café pakistano nell’East End, mangiando kebab per colazione. Quindi muoio soddisfatto. Che dici? Non vale? E’ una forzatura? A me non sembra. In un mondo in cui Toro-Real è la finale di Champions League, io posso fare ciò che voglio di Bill Gates e Steve Jobs. :o)

1 commento:

Lucy ha detto...

Alla partita Toro - Real Madrid ero presente anch'io ;)
Vedo che anche Castelli ha il mio stesso sogno: il divin Mou che allena il Toro, ah siamo inguaribili sognatori...